Categoria: Rivista Online - Edizione Novembre 2015

Lo sapevo.

Non dovevo uscire, così, da casa. Sarebbe bastato un minuto in più. E ora invece mi tocca fermarmi. Altrimenti, non ci arrivo. Devo. Devo proprio. Ma dove mi fermo?

Ecco, sto per arrivare al centro commerciale. C’è l’incrocio, qui. Giro a sinistra, e subito, mi fermo. Non ce la faccio quasi più. Ecco. Mi posso parcheggiare davanti l’ingresso. Tanto, a quest’ora non c’è nessuno. Scendo.

 

Apriti, porta elettronica. Veloce, che non ce la faccio più.

Allora. Dove sarà il bagno?

Negozio di tovaglie, coperte, cuscini. Porta laterale del bar. Pasticceria. Parrucchiere. Lì c’era un negozio di casalinghi. Chiuso. Forse il bagno è al piano superiore. Salgo le scale. Gambe strette. C’era un negozio di lampadari. Chiuso. C’era un negozio di scarpe. Chiuso. C’era un negozio di accessori per la casa. Chiuso. Da quassù si vedono le strade. E come hanno costruito, lungo la Statale. Solo case, attaccate, recintate, soffocate, e niente altro. Si affacciano direttamente sulle ruote delle auto che passano.  C’era un negozio di abbigliamento per bambini. Chiuso.

Solo la lavanderia a gettone, è rimasta aperta. Ma non c’è nessuno dentro. E non c’è il bagno.  Riscendo giù, forse non ho visto bene.

Eccolo, il bagno. Proprio di fronte alle scale. Non lo avevo visto prima perché guardavo avanti a me. Invece, avrei dovuto guardare lungo la parete al mio fianco. Entro.

Non c’è nessuno, per fortuna. Chiudo la porta. Che c’è scritto, sul muro, là sopra?

 

“Stronzi, sotto al terremoto – aspetta, ci hanno aggiunto ‘napoletani di merda’ – avete mangiato con i soldi, napoletani papponi ladroni ritornate a Napoli “.

 

Ma che vuol dire, questa cosa?

Aspetta, adesso la fotografo, col cellulare, così, me la studio, per capire.

Però, se per fare la foto, faccio il rumore della foto, e qualcuno da fuori sente? Sicuro che pensa che mi sto fotografando le parti basse. Tolgo il suono, dalle impostazioni del cellulare. Ci metto un istante di più, però così sto tranquillo. Ecco, fatto. Foto.

 

Ma, lo sapevo. Lo sapevo ancora.

Questo camion enorme, davanti a me. Con i cassoni altissimi. Colmo di terra, che cammina a venti chilometri orari. Vecchio di almeno trent’anni, che fa un fumo nero assurdo, e io non posso sorpassarlo, che il traffico su questa strada è diventato impossibile. Anche per tutto il rettilineo dopo Sassa Scalo. Non lo posso superare mai. E mi riempie di sassetti, che scivolano via dal cassone troppo pieno, e mi rigano la carrozzeria. Mi devo pure distanziare. A venti chilometri orari.

Arrivo tardi a lavoro.

 

Io non voglio timbrare tardi, a lavoro.

E’ una cosa che non mi piace, che non sopporto. Che mi fa sentire in colpa, che mi pare uno sbaglio. E poi tutti mi guardano, se timbro più tardi. Come se avessero più potere su di me, perché è come se avessi mancato qualcosa. Anche se poi recupero, e esco dopo l’orario normale. Timbrare tardi al mattino è brutto.

 

Questa collina, davanti al passaggio a livello della strada per Lucoli, l’hanno disboscata tutta. Ogni volta che ci passo a fianco, due volte al giorno, guardo la terra sul bordo della strada, e, se piove, ci passo vicino più attento. La paura. Perché mi può cascare tutta addosso la terra. Hanno tolto gli alberi. Ci stanno solo cespuglietti bassi. Forse qualche albero che prova a ricrescere. Ma le radici saranno piccole per trattenere la terra. Ha una bella pendenza questa collina. E può diventare un fiume di fango. Oppure ci costruiranno sopra. Non lo so. E’ solo spelacchiata, adesso. Non ci portano nemmeno più le capre al pascolo.

 

Però ho bisogno di un caffè. Se faccio veloce, dopo aver bevuto il caffè mi mancano ancora sei minuti, prima di dover timbrare, forse posso farcela.

Vado al bar dietro la rotonda.

C’era un terrapieno, qui, e erba incolta, che s’affacciava su una specie di parcheggio. L’hanno allargato ora, e spianato tutto. Mi fermo. Che fanno quelli vicino ai bidoni dell’immondizia? C’ è uno che grida.

Hanno trovato dei cagnolini piccoli, dentro i bidoni della carta. C’è uno che li fotografa. Dice che adesso mette tutto su Facebook. Dice che oggi farà un milione di “like”. Dice.

 

Il caffè qui è buono. Lo so.

Ma mi ricordo chi ci lavorava, qui. Ed è morto col terremoto. Quando prendo il caffè qui, me lo ricordo sempre. Anche se questo posto puzza sempre di cucinato.

Fuori dal bar, i cagnolini sono rimasti soli, su un pezzo di cartone, per terra.

 

Apro i finestrini dell’auto così l’odore di bar si toglie dai miei vestiti. E nessuno, a lavoro, pensa che puzzo e sono sporco. Fa niente, che fa freddo, coi finestrini aperti. L’unica cosa che mi da davvero fastidio è il soffocamento dei gas di scarico delle macchine. Una puzza infame. Ma io non voglio che gli altri pensino che sono trascurato. Se sento puzza di gas, trattengo il respiro per un po’.

 

Non c’è un parcheggio, del Tribunale. Hanno rifatto il Tribunale più basso di un piano, e non trovo mai parcheggio. Anche se ci giro intorno. Verrebbe da mettersi nelle buche dei palazzi abbattuti di via Filomusi Guelfi. Io lo so che l’unico parcheggio utile è al centro commerciale più sotto. Perché al centro commerciale, il parcheggio, c’è, all’ufficio pubblico, no. E poi io non voglio multe. Un po’ di strada a piedi in salita, non mi farà male. Anzi. Solo che davvero timbrerò in ritardo.

L’aria punge, un po’, di nebbia e cristalli.

E’ strano rientrare dentro il Tribunale.

Io sento sempre l’odore del vecchio bar. Il suono dei tacchi delle avvocatesse carine, quelle che guardo solo di nascosto. Senza farmi accorgere. Senza esistere. Mentre camminano in gonna, e con la cartellina dei documenti a tracollo.

 

Scendo giù le scale. Non prendo l’ascensore. Non lo prendo più. Un po’ perché ho paura, e un po’ perché ho timbrato un po’ in ritardo e non voglio vedere nessuno, e mi imbarazza se trovo qualcuno che mi guarda in ascensore, e non so cosa dire, neanche buongiorno, mi dicono, spesso, quasi sempre. No, sempre.

Ecco la mia scrivania, dentro il sotterraneo dell’archivio. Chiusa dentro i separè di cartongesso. La luce al neon sempre accesa. L’attaccapanni. Le rotelle sotto la sedia. Accendo il computer.

Non c’è nessuno, qua sotto. Qua sotto il silenzio ha il rumore della luce elettrica che sfrigola. Di qualche porta che si apre e chiude lontano. Di passi che ogni tanto arrivano. Del buio che inghiotte la luce che ho qui, alla mia sinistra.

 

Lo schermo del computer è acceso.

Il mio lavoro è semplice. Di ogni processo che è stato aperto qui, io devo guardare tutti i verbali, e collegare ai nomi delle persone che ci hanno partecipato, avvocati, testimoni, giudici, carabinieri, imputati, ricorrenti, parti civili, di tutti, periti, consulenti, di tutte, segretarie, verbalizzanti, stenografe, giurie popolari, devo ritrovare, di tutti e tutte, i codici fiscali e associarli al procedimento.

Così, se qualcuno vuol sapere se il signor Del Francescantonio Giosuè, abbia mai partecipato ad un processo, e di che tipo, e quando, e in quale veste, con un semplice clic del mouse, lo può trovare, e farci sopra le considerazioni che crede. Non lo so, in realtà, io, chi userà questa roba. Io faccio il lavoro che mi hanno detto di fare. E basta. Sono arrivato ai processi del 1994, per ora. Devo fare ancora oltre ventuno anni di processi, quindi sto a posto. Alla pensione forse ci arrivo, se resto vivo, e qualcun altro finirà il lavoro al posto mio. Ma lo voglio vedere chi metteranno qui, dopo di me. Un giorno mentre sto in pensione vengo al bar qui, del Tribunale, mi prendo un caffè, e arrivo al sotterraneo, tanto non controlla mai nessuno, chi entra e chi esce, e guardo chi mi ha sostituito, magari gli do qualche consiglio su come fare, per essere più veloci e precisi. Perché ci vuole precisione, qui, a far sempre le stesse cose, senza sbagliare mai, e sempre premendo gli stessi tasti, però senza sbagliare, e senza ripetermi, perché ogni persona è diversa e i numeri sono sempre diversi, e le lettere qualche volta uguali, anche se, non lo sai mai se, GNN è Giovanni o Giovanna, lo scopri dopo, solo alla fine.

 

Sembra facile, che non devi pensare, ma solo premere tasti, senza responsabilità, secondo una procedura che pensa per te, sembra così, ma tu lo sai che, ogni tanto, il computer ha un inciampo, e tu lo devi aggirare. Devi trovare il modo di fare le cose precise, anche quando la realtà era del tutto imprecisa. Chi ha fatto la procedura ha pensato ad un mare di possibilità, ma dentro il mare le gocce d’acqua sono senza numero, e ogni tanto qualcuna schizza via, e tocca a me riprenderla, e farla ritornare in porto. Lo faccio secondo quel che penso io, magari è sbagliato, ma nessuno viene a controllarmi qui. Potrei persino inventare che io ho partecipato a tutti i processi tenuti a l’Aquila, come usciere, solo come usciere, dal 1970 al 1988, ad esempio. Tanto a me non mi cerca nessuno. Né adesso, né dopo. Potrei cercarmi solo io, volendo, e posso ritrovarmi, in qualche migliaio di processi del passato. Fermo e muto, come la statua della Giustizia, bendata e con una bilancia in mano. Ma anche con una spada, nell’altra. E lo saprò solo io, che c’ero. Che ho guardato e ascoltato tutto, anche con gli occhi chiusi.

 

Però, no.

Non lo faccio. Non lo faccio perché ci vuole un sacco di tempo, a farlo. E poi perché non è giusto che lo faccio, io mica c’ero davvero a quei processi. E se poi qualcuno controlla, e mi trova lì, da un sacco di parti, e mi chiede che ci facevo io lì, a che titolo, ci stavo, io che rispondo?

Mica posso dire che ero solo una statua, o un’ombra, o un errore del computer. Io non c’ero e basta, e non dovevo esserci nemmeno, e questa è la verità. Che io non c’ero e non ci sono. E va bene così.

Io scrivo e basta, sul computer. Preciso.  Preciso, però, mi raccomando. E concentrato, che, ogni volta, mi devo concentrare. Per non sbagliare. Io non mi devo sbagliare, non posso sbagliare, mai. Nessuno mi deve poter dire nulla, dopo, sul mio lavoro. Anche se nessuno lo guarderà mai, il mio lavoro.

 

Perché si apre la porta, adesso?

Che vuole il mio capo?

Ride, ride sempre quando entra qui. E sempre mi lascia una scrivania piena di faldoni. Che devo fare prima degli altri. Anche se non sono in ordine cronologico. Anche se poi devo incastrarli e incrociarli con quelli che stanno sugli scaffali dell’archivio. Mi guarda come se avessi la giacca dello stesso colore del muro e scarica le carte. Si gira e se ne va. E io non faccio neanche in tempo a salutare o a dire qualcosa. Che lui arriva e se ne va. E io devo lavorare prima le sue carte e poi il resto. Me lo ha detto una volta, tanto tempo fa, che doveva essere così, e così io faccio. Faccio sempre così. Non c’è bisogno di parlare. Questo devo fare, questo faccio. Solo che così mi mette tutto in disordine. Però io lo faccio lo stesso, perché non voglio essere rimproverato perché non ho eseguito un ordine.

 

Però, oggi.

Però oggi è diverso.

Oggi ho alzato lo sguardo, mentre mi metteva le carte sulla scrivania.

E ho visto che ha sputato per terra.

 

Non l’ho capita, questa cosa.

Lui lavora qui, come me. Anche se lui è più importante di me, e il suo stipendio è molto più alto. E’ brutto sputare per terra. E’ sporco. E se ci metto il piede sopra al suo sputo?

E poi aspetta.  Mi ha anche detto qualcosa. Ha detto che devo lavorare. Che non faccio un cazzo dalla mattina alla sera. E sto solo sempre seduto qua. E basta. Seduto e basta.  Perché dice così?

Io lavoro.

Se uno apre il mio computer, vede quello che faccio e quanto lavoro tutto il giorno.  Ci sono le procedure informatiche, per vederlo. Possono dire tutti così qua dentro?

Perché ha fatto proprio a me questa cosa?

Io non ho mai detto niente. Ho solo lavorato. E adesso questa cosa.

Allora, me ne vado.

Quando finisco l’orario di lavoro, però, di oggi, me ne vado. Stasera, quando è già buio, che devo recuperare qualche minuto, che ho timbrato un po’ tardi, allora me ne vado. Che ore sono?

Fammi guardare il telefono.

Aspetta.

Che c’era scritto in quel bagno, stamattina? Ho la foto.

“Avete mangiato con i soldi, sotto al terremoto…”

Che vuol dire?

 

Ecco.

Sono salito fin quassù. Mi sono arrampicato sui tubi di ferro. Piano piano, sono riuscito ad arrivare in cima, anche al buio, quasi.  Da quassù vedo le cicatrici di San Bernardino. Quelle che il restauro ha lasciato lì, tra le pietre spezzate e riunite.

E guardo fin sotto la Scalinata, che là sotto c’era la Risotteria, che adesso è chiusa. E dall’altra parte c’è questo palazzo nuovo, bruttissimo, e si vede un pezzetto di quello che stanno ricostruendo, a via Verdi, che c’era un enorme buco profondo fino a poco fa, e l’Università che è ferma e a pezzi, e il teatro non lo vedo, che hanno iniziato a lavorarci, dicono. Ecco, sto in cima, sopra questi ferri che sembrano i tralicci dell’elettricità, ma non ci passa niente dentro, neanche l’aria quasi, in mezzo, solo sotto, ci sono cresciute, in mezzo tra i rami di ferro, le piante, quasi alberi, da sei anni e mezzo.

E questo ferro, e ogni nodo che lo tiene insieme, ecco, quanto costavano i nodi di ottone? Ho sentito una volta che costavano ventitre euro l’uno. Ce ne saranno cinquemila, di nodi di ottone, solo in questo puntellamento. E quanto costavano tutti questi ferri? Tre cubi di ferro, con tutti i bracci intrecciati, tre pareti alte, fino quassù in cima che non sento neanche più le persone che camminano sotto e qualche macchina che passa. Chi li fabbricava i rami di ferro e i nodi di ottone, sei anni fa? E chi li ha montati? E a che servono ancora oggi?

 

Ecco allora. Io in macchina, nel portabagagli della mia macchina, c’ho lo zaino con gli attrezzi, da dopo il terremoto, che non si sa mai, che può succedere, ad ogni istante, e, se posso, un po’ sto preparato. E adesso ho preso lo zaino, e me lo sono portato quassù, e dentro c’ho chiavi inglesi e pinze, e smonto questi ferri. Senti che rumore pazzesco che fa questo ferro che cade di sotto, e urta cinque piani di ferri e tre pareti di cubi, e i nodi, e arriva a terra che sembra una campana, una mitragliatrice, l’urlo di un tuono e di Tarzan, tutto insieme, e un treno che corre sulle rotaie senza fermarsi, nemmeno sull’asfalto, alla fine, laggiù in fondo. A nessuna stazione. E un’eco di montagna, sembra.

E urlo.

Urlo che bisogna rompere l’abitudine.

 

L’abitudine di questo palazzo brutto che era una scuola brutta e triste, non per i ricordi dei bambini e delle bambine che ci sono stati, ma proprio perché era un ospedale, prima, era triste. E io butto giù tutti i ferri, così, il palazzo cade. E si sfrantuma per terra. E così tutti si accorgono che possono mettere una scuola in centro, anche da altre parti. Mica per forza qui.  E farla più sicura e bella, anche col giardino e il parcheggio e la palestra, per esempio, qua vicino, a due passi, dove sta il Distretto Militare, che da oltre sei anni guarda passare i muratori che lavorano da altre parti, e nessuno lo guarda, il Distretto vuoto e chiuso e rotto. E così tutti si accorgono che, se qui, da quassù dove sto io, dopo che ho smontato tutto e tutto è cascato per terra come un castello di carte sbagliato, e s’accorgono tutti che è bello, il vuoto. Che c’è una piazza, grande, col teatro e la chiesa e l’università, e magari qualche albero e due vecchi che si baciano. Che così tutti si accorgono che l’abitudine non serve a niente, è solo una galera e io sto smontando tutte le sbarre di questa prigione, e faccio cascare tutto, e sotto a tutto non c’è più nessuno che si mangia i soldi, ecco, allora, tutti si possono accorgere dello spazio che si crea, e apre la vista e il respiro.

 

E tutti si accorgono che io lavoro. Ecco.

 

Scuola De Amicis, L´Aquila

Fonte: Goffredo Palmerini