Categoria: Rivista Online - Edizione - Aprile 2016

 

Aveva una vecchia bicicletta da uomo, nera.

Di quelle che, sul manubrio, montavano manopole di plastica dura, talmente sfinite che, quasi, non erano più avvertibili, le zigrinature che segnavano lo spazio delle dita.

La vernice era parecchio scrostata, specialmente sui parafanghi, che montavano una ulteriore copertura metallica parziale delle ruote, e dei raggi, d’acciaio leggermente slabbrato, e vibrante, per limitare al massimo gli schizzi d’acqua sporca, con la pioggia.

 

Sulla salita che, da Borgo San Giovanni, dirigeva alla strada di collegamento verso Marruci di Pizzoli, il signor Guglielmo portava la bicicletta, a mano, camminandoci a fianco, lentamente, sulla carreggiata opposta, a quella del proprio senso di marcia.

Almeno due o tre giorni, ogni settimana, faceva quella strada, con l’idea di pedalare sino a L’Aquila, se la pioggia, o la neve glielo consentivano.

 

Durante la salita, breve, però, almeno una volta, il signor Guglielmo si voltava sempre a guardare, indietro, le casette prefabbricate di Borgo San Giovanni.

Una decina di file di abitazioni, poste trasversalmente rispetto alla strada, appoggiate sul declivio, e attraversate da stradine interne; orizzontali e verticali.

Le prime, viste dall’alto, con l’intonaco color giallo; altre, più in basso, con l’intonaco esterno rosa antico. Tutte, con un breve tetto spiovente a tegole, artificiali.

 

Se non fosse stato un abitante di Borgo San Giovanni, il signor Guglielmo avrebbe potuto pensare di trovarsi davanti ai vecchi capannoni di una ordinata fabbrica inglese dell’800, o agli alloggiamenti della truppa in una caserma. Come quella di Cividale del Friuli, dove aveva prestato servizio come alpino, nei primissimi anni ’60 del secolo scorso. E lì aveva scoperto che proprio ad un friulano, doveva il suo nome di battesimo: un eroe, per gli italiani, un terrorista traditore, per gli austriaci che lo impiccarono.

 

E invece Borgo San Giovanni era un villaggio di Moduli Abitativi Provvisori, costruito per gli sfollati dal terremoto del 6 aprile 2009. Ordinato.

Ogni fila di abitazioni era contornata da un marciapiede che, in realtà, era il residuo libero della grossa base di cemento armato, su cui i moduli abitativi erano stati poggiati, e da uno spazio di terra, spesso solo un piccolo fazzoletto, dove erano piantati fiori o piccoli alberelli, o dove crescevano solo erbacce ignorate e che nessuno falciava; e poi la strada, percorribile in un solo senso di marcia. Come se fosse stata segnata da un ago che, col suo filo, percorresse un cammino alternato, di sutura. Ora in un verso, ora nell’altro; una cicatrice d’asfalto, occupata in parte da automobili parcheggiate sui bordi.

Gli intonaci, erano graffiati da crepe e sbucciature, che lasciavano intravedere il cartongesso sottostante, come un vecchio legno, privato, in parte, di pezzi di corteccia; invisibili però, al signor Guglielmo che guardava dall’alto, una trentina di metri distante.

 

Il signor Guglielmo, abitava lì.

 

Veniva dall’Aquila.

La sua vera casa, in via Rocca di Corno, quasi su via XX Settembre, era inagibile, parzialmente crollata, ed ancora appariva lontano il momento in cui sarebbe stato possibile decidere se abbatterla e ricostruirla, o ripararla.

 

Era vedovo, da tanto tempo, il signor Guglielmo, e viveva insieme al suo primo figlio, quasi cinquantenne, divorziato e disoccupato, dopo che il panificio per il quale lavorava, a causa del terremoto, era stato chiuso.

Il padrone dell’azienda aveva fatto immediatamente smontare i forni, anche se il capannone che ospitava il panificio non era stato affatto danneggiato dal sisma, e li aveva trasferiti a Borgorose, nel reatino, senza curarsi minimamente delle persone che lavoravano per lui, che avevano potuto usufruire solo di un breve periodo di cassa integrazione, ed erano state poi licenziate.

Anche se, al figlio del signor Guglielmo, era stato offerto di andare a lavorare nella nuova sede del panificio a Borgorose, ma a metà stipendio, rispetto a quello che aveva fin lì percepito.

Così gli raccontò, quasi piangendo, il figlio Vincenzo, che aveva rifiutato l’offerta, restando senza lavoro.

 

Il signor Guglielmo, quel mattino, guardò in alto, verso la fine della salita, nel cielo accarezzato da grandi nuvole bianche, che parevano lentamente sfaldarsi, sotto il vento di inizio marzo, appena sopra la cima delle montagne di fronte.

Arrivato all’incrocio, tirò fuori dalla tasca del suo giubbotto, due mollette da bucato in legno, e le chiuse sul risvolto dei pantaloni, all’altezza delle caviglie. Calcò meglio il cappello sulla testa, e salì sulla sella della bicicletta, iniziando a pedalare.

 

Si lasciò alle spalle, con uno sguardo, il Bed & Breakfast aperto da tre o quattro anni, sempre affollato e pieno di muratori. Italiani e stranieri. Alloggiati lì per lavorare nei cantieri della ricostruzione. Lontani da ogni centro cittadino.

Solo un bar, di fronte. Pieno di slot-machines.

 

Alla destra del signor Guglielmo scorreva il piccolo stadio di calcio del paese, e poi, pedalando in discesa, pezzi di campagna recintata, come un’infezione crescente, in cui erano affastellati tubi d’acciaio per le impalcature, mucchi di macerie ricoperte da muschio, bandoni di latta, in mezzo alle querce ancora secche d’inverno.

E poi il piccolo cimitero, quasi sull’incrocio della strada che portava verso L’Aquila.

 

Il signor Guglielmo pedalava lentamente, affondando ogni volta la gamba, per dar forza a tutto il gesto, piegando lievemente il corpo, nel verso della gamba che scendeva, come un metronomo leggermente sghembo.

Superò l’incrocio, entrando sulla strada provinciale, stretta, una sola corsia per i due sensi di marcia, trafficata di auto veloci, lasciandosi alle spalle la depressione della strada, più in basso, che ospitava lo scheletro metallico, escrescente e nudo, di una “Casa dello Studente”, sottoposta a sequestro, edificata subito dopo il sisma del 6 aprile 2009, perché ritenuta abusiva, e poi dissequestrata, e intanto violata dai ladri, e ancora inutile, pur avendo tranciato la terra che c’era, una volta, di alberi.

 

Il signor Guglielmo, era stato un bidello, al liceo; lì, era diventato “signor Guglielmo”, e tutti lo chiamavano così, compresi i ragazzi più scatenati.

Forse per quei suoi capelli precocemente bianchi, e i baffi, leggermente ricurvi verso l’alto, sempre ordinatissimi e curati, come in una foto in bianco e nero della Grande Guerra, e l’aria sempre marziale del suo atteggiamento - quel suo sbattere i tacchi ogni volta che veniva chiamato da uno dei professori - che incuteva una istintiva, divertita, reverenza.

 

Le auto, sulla strada, lo sfioravano, facendogli sentire, ad ogni passaggio, uno sbuffo d’aria viziata di carburante, mentre era concentrato nel tentativo di far correre la sua ruota anteriore, esattamente sul disegno della riga bianca, che segnava il margine destro della carreggiata, nonostante, spesso, fosse interrotta da buche o da rigonfiamenti dell’asfalto, che, subito, terminava dentro la campagna senza cura.

 

Passò il sito archeologico di Amiternum, chiedendosi, come ogni volta che ci passava accanto, quanto si estendesse in realtà intorno. Sotto la terra addormentata.

Chiusa da un recinto metallico e fragile, si alzava una maestosa costruzione di mattoncini bianchi, colma di fascino antico. In conflitto con le case di legno, che montavano antenne televisive satellitari sul tetto, costruite troppo vicino, o con gli enormi capannoni di cemento della Scuola Edile, appena edificati.

 

E altre campagne consegnate all’abbandono di mattoni, e tegole e bidoni e sacchi di cemento in piramide, e murate, con il rimorchio di un vecchio camion lasciato lì a presidiare l’area intorno.

E l’autodemolizione, alla sua sinistra, con la catasta alta, gocciolante, di automobili scarnificate, disossate, in equilibrio l’una sull’altra, senza più colore. Una vela pesante, al vento. Le occhiaie del parabrezza e dei finestrini laterali vuote, bucate dal cielo lontano.

 

Qualche auto suonava il clacson, dopo averlo oltrepassato. Come una specie di insulto sguaiato.

Il cartello indicava l’arrivo a L’Aquila, senza che, però, fossero mai finite le case, da Pizzoli fino alla rotonda, con la strada che, ora, portava, a destra, verso la caserma della Guardia di Finanza, oppure diritta verso l’Ospedale, e, alla sua sinistra, verso l’ingresso del primo centro commerciale incontrato in città, dopo Cansatessa, prima di Pettino.

 

Il Signor Guglielmo, accostò al bordo destro della strada, vicino alla sede prefabbricata di una ditta di traslochi, e s’abbassò, per togliere le mollette dai pantaloni.

Attraversò la strada, con la bicicletta al fianco, e si diresse, in salita, verso il centro commerciale.

 

Alcune vetrate della libreria erano coperte, dal pavimento fino al soffitto, con grandi fotografie che riproducevano l’insegna e l’ingresso del negozio, quando questo era nel centro storico della città, nella piazzetta poco dietro il Municipio.

Alcuni vetri riflettevano un gruppo di nuovi palazzi, dall’altro lato della strada, poco sopra, spaccati dal terremoto, immobili da quasi sette anni. Una crosta vuota. Recintata di plastica arancione.

Creando un contrasto visivo che pareva far galleggiare quel luogo dentro un cielo impossibile.

 

Il signor Guglielmo entrò nella libreria, e si diresse verso gli scaffali che contenevano i classici della letteratura. A sinistra dell’ingresso.

L’odore della carta stampata era come un fieno non tagliato, da camminare sotto il sole.

Scelse quattro o cinque libri. La spesa, più o meno, doveva restare sempre dentro i cinquanta euro.

Il signor Guglielmo, era attento, alle sue spese. La pensione doveva bastare per tutto. Per tutto il mese, per tutti gli anni, prevedendo anche possibili emergenze.

Compresa la sua spesa quasi settimanale di libri. Classici, il più delle volte.

L’Odissea, ogni volta che era possibile, e Il Conte di Montecristo, e Le Tigri di Mompracem, e Alice nel Paese delle Meraviglie, e Moby Dick.

 

E, ogni volta, quando usciva portando con sé i libri appena acquistati, il signor Guglielmo sentiva le mani vuote. Come se non riuscisse mai a contenere tutto quello che sognava. Tutto quel che avrebbe voluto sfiorare. Tutto quello che immaginava di incontrare.

Pensando ai tesori lasciati nel negozio, e non ai libri che portava via.

 

Sistemò la busta dei libri sul manubrio della bicicletta, infilandone i manici sul lato sinistro. Lasciandola penzolare.

Salì in sella, dopo aver rimesso le mollette ai pantaloni, e prese a scendere lungo la strada interna al parcheggio del centro commerciale, in lieve discesa. Di fronte a lui, le automobili trasversalmente in fila per uscire dal parcheggio.

E fu allora che non s’accorse, d’aver preso troppa velocità. E non riuscì a frenare e fermarsi prima dell’incrocio. La ruota anteriore della bicicletta andò a sbattere contro la portiera di un’auto ferma in coda, e il signor Guglielmo non riuscì a tenersi in equilibrio. Cadde a terra. Sbalzato via dalla bicicletta per l’urto.

 

Avvertì forte il dolore, alla spalla sinistra, che sentiva bloccata, immobile, e alla testa, che gli pareva serrata strettamente.

Sentiva una luce elettrica, sul bordo degli occhi chiusi, che si riaprivano piano.

 

Era nel Pronto Soccorso dell’Ospedale, steso su una barella, con un lenzuolo e una coperta indosso, accostato al muro di un corridoio.

Suo figlio Vincenzo era lì. E lo guardava, preoccupato.

 

Il signor Guglielmo iniziò ad avvertire lampi di dolore alle gambe, che si risvegliavano, e al torace. Una smorfia, sulle labbra.

 

- Papà… come ti senti? –

- Sono vivo, quindi bene, no? –

 

Vincenzo sorrise, e si girò, per un attimo, guardandosi dietro le spalle, come per cercare qualcuno. Ma era un gesto che serviva per passarsi rapidamente la mano sul ciglio dell’occhio, e cancellare l’inizio di lacrima che voleva uscirne. Senza farsi vedere dal padre.

 

- Ma che è successo, che facevi lì? –

- Non lo so bene, che è successo. Avevo comprato i miei libri, come sempre. –

- Libri? Papà, ma, a casa, libri non ne abbiamo quasi per niente, che vuol dire. “come sempre” ? –

 

Il signor Guglielmo s’accorse che Vincenzo aveva repentinamente cambiato espressione, preoccupato, diventando rosso in viso, con gli occhi accigliati, mentre si guardava intorno come per cercare immediatamente un medico, o un infermiere, come se immaginasse una manchevolezza sua, uno sfarfallamento.

 

Il signor Guglielmo, mise la mano sul braccio del figlio, come per trattenerlo.

 

- Vincenzo, perdonami.

Scusami, se non te l’ho mai detto prima, ma mi vergognavo di spendere soldi nostri, che potevano servire, per noi.

Da tanto tempo, io compro libri.

Poi passo da un cantiere, e ne lascio uno, appoggiato ad una betoniera magari, senza farmi vedere; oppure, ne dimentico un altro al tavolino di un bar.

Qualche volta lascio Madame Bovary tra i banchi di una chiesa. O Michele Strogoff nella sala d’aspetto della stazione.

E Oliver Twist, sotto la pensilina di un bus.

E poi, quando ripasso per quei luoghi, i libri che ho lasciato, non li ritrovo mai.

Allora, penso che è bello.

Che qualcuno li ha raccolti. Che una storia ha trovato qualcuno che la faccia rivivere. Che, per mani che non hanno mai toccato un foglio, ci sia una sorpresa.

Penso che le fantasie che ho incontrato nella mia vita, o a scuola, possano ancora camminare.

Lo so che sono un po’ scemo, Vincenzo, ma non è colpa della botta. –

Teatro di Amiternum

Amiternum,l'anfiteatro

Fonte: Goffredo Palmerini