Categoria: Rivista Online - Edizione - Febbraio 2016
L’Europa culla di civiltà, di libera circolazione delle merci e dei capitali, si ritrova a dover accogliere centinaia di migliaia di profughi provenienti da altri continenti. Il fenomeno comincia a turbare il quieto vivere delle popolazioni europee, convinte come sono che con la fine della seconda guerra mondiale fosse iniziato un periodo di pace durevole.
L’Europa era abituata a gestire migrazioni funzionali alle sue attività produttive, di fronte ad una terza guerra mondiale, combattuta per aree geografiche e per guerre civili, si è trovata impreparata ad affrontare migrazioni di milioni di persone espulse dai loro territori per guerre o per carestie.
Dopo una prima fase di “ostentata magnanimità” molti Governi europei hanno pensato bene di chiudere le frontiere, addossando la colpa delle invasioni alla incapacità degli Stati mediterranei di fronteggiare l’afflusso di persone che cercano di non morire. Si è aperto un dibattito su come fermare queste migrazioni bibliche. L’Europa sta cercando una linea comune per far fronte al problema, in questa prima fase la linea ritenuta più efficace è quella di dare asilo solo a coloro che sono stati identificati come profughi di guerra, mentre, si cerca di rimandare indietro coloro che sono “profughi economici”, coloro che hanno abbandonato le loro terre per non morire di fame o perché sono stati espropriati e cacciati dai luoghi di origine.
Dal punto di vista della politica economica come occidentali siamo chiamati ad affrontare un ulteriore cambio di strategia globale, dopo la cultura del latifondismo finanziario, mentre si cercano di riparare i danni, il sistema si è ulteriormente evoluto riuscendo a miscelare il latifondismo agrario con il latifondismo finanziario, il prodotto finale è rappresentato dal “Land Grabbing”.
Quando parliamo di latifondo agrario immaginiamo una proprietà terriera di grandi dimensioni appartenente ad una famiglia molto potente per quel territorio. I difetti tipici del latifondo agrario, erano il basso livello di utilizzo a scopi produttivi e i bassi rendimenti unitari, difetti attenuati dai grandi numeri dell’ampiezza aziendale, questi difetti sono stati corretti dalla capacità organizzativa del latifondismo finanziario, che oggi deve essere preso in esame molto seriamente per la complessità dei meccanismi economici e dei rapporti sociali che mette in essere con la sua strategia.
Nell’era della globalizzazione il termine latifondo si è evoluto, non deve essere più inteso solo come misura agraria o semplice tipologia aziendale, quanto come un insieme di condizioni economiche, sociali, politiche e giuridiche.
Questa nuova strategia è conseguente a tre fenomeni tipici del nostro tempo: primo, la crisi alimentare e la dichiarata necessità per i Paesi più insicuri di garantirsi un approvvigionamento alimentare costante e a basso prezzo, esternalizzando la produzione di cibo altrove; secondo, la crisi energetica e climatica, che impone la necessità di diversificare le fonti energetiche e fa aumentare la domanda di agro-combustibili; terzo, la crisi finanziaria e l’enorme quantità di capitali in cerca di beni di investimento più sicuri e redditizi, che ha portato a un forte aumento della speculazione sia sulla terra che sul cibo.
A partire dal 2008, fondi d’investimento, fondi pensione, fondi di private equity, hedge funds e compagnie di assicurazione hanno cominciato a fare acquisizione di terra in tutto il mondo.
Il risultato di questa nuova governance viene definito come land grabbing, letteralmente furto di terre, che consiste nell'accaparramento di terre in paesi del Sud del mondo, da parte di imprese e governi di Paesi a reddito medio alto.
Nella maggior parte dei contratti, la terra è fornita dal governo ospitante o da un ente parastatale, l’acquirente varia da un governo straniero, a un’organizzazione intergovernativa, a un investitore privato.
Il fenomeno, che ha tutta l'aria di un ritorno al colonialismo vecchia maniera, pone gravi problemi non solo di indipendenza politica ed equo trattamento economico, ma anche di fame e autosufficienza alimentare, perché la terra accaparrata è quella migliore e viene sottratta ai contadini del luogo. Tutto questo si traduce in espulsioni forzate, violazione dei diritti umani, aumento della insicurezza alimentare, della fame e della povertà per gli autoctoni.
E’ un fatto che le terre fertili del Sud del mondo sono diventate un bene sempre più prezioso, e sono oggetto di un frenetico “accaparramento” che vede impegnati molti paesi, i più attivi sono Arabia Saudita, Cina, Corea del Sud e India, nonché le multinazionali dell’agribusiness, interessate a creare enormi piantagioni per la produzione di cibo destinato all’esportazione o di biocarburanti, dall’altro una serie di società finanziarie, come gli hedge fund o i fondi pensione, convinte che l’investimento in terre possa garantire guadagni sicuri. Questo trend ha sollevato più di una preoccupazione riguardo alla possibilità che questi progetti mettano a repentaglio la sicurezza alimentare delle piccole comunità rurali, espropriando i contadini delle poche risorse che hanno a disposizione per il loro sostentamento.
Il complicato sistema di “land tenure”, ovvero di proprietà della terra, caratterizzante diversi paesi soprattutto dell’Africa Subsahariana, non tutela i diritti consuetudinari delle comunità rurali che, non avendo documenti formali attestanti l’effettivo possesso della terra, corrono il rischio di essere espropriate delle loro risorse in qualsiasi momento, senza neppure essere consultate.
Sono molti i paesi che dipendono dalle importazioni alimentari e che cercano di “esternalizzare” la propria produzione alimentare nazionale acquisendo il controllo di terreni agricoli in altri paesi. Questa scelta viene vista come una strategia innovativa e lungimirante per assicurare l’alimentazione delle proprie popolazioni a buon mercato e con un grado di sicurezza assai superiore. Oltre ai paesi già menzionati sono molti i paesi interessati a questa strategia alimentare come il Giappone, la Malesia in Asia; l’Egitto e la Libia in Africa; il Bahrein, la Giordania, il Kuwait, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti nel Medio Oriente.
Uno dei paesi più attivi in questo ambito è quello cinese, anche grazie alle grandi riserve di valuta straniera che possiede. Oltre trenta accordi di cooperazione agricola sono stati conclusi nel corso dell’ultimo quindicennio in modo da offrire alle imprese cinesi un accesso ai terreni agricoli in cambio di tecnologia, di formazione e di sviluppo delle infrastrutture. Ciò è avvenuto non solo in Asia, ma anche in Africa attraverso tutta una serie di progetti molto diversi e complessi. Recentemente il governo cinese ha annunciato di aver impegnato cinque bilioni di dollari americani da mettere a disposizione delle compagnie cinesi per investimenti nell’agricoltura africana per i prossimi cinquanta anni.
Anche la produzione di agro-combustibili ha un legame diretto con l’incremento del prezzo del cibo e con la crescente scarsità di terra per produrlo.
Alcuni dati parziali utili a comprendere la portata del fenomeno degli affitti nel continente africano: in Mozambico oltre centomila ettari coltivati a Jatropha, canna da zucchero e palma da olio; la stessa situazione la ritroviamo in Angola, Congo Brazzaville, Nigeria, Etiopia, Kenya, Guinea Konakry, Senegal, Madagascar, Egitto, Algeria, Marocco, Ghana, Camerun, Guinea Equatoriale, Togo, Benin, Repubblica Centrafricana.
Le comunità a cui è impedito l’accesso alla terra vengono sconvolte, le economie locali distrutte, il loro tessuto socio-culturale e la loro stessa identità sono messi a repentaglio, così come l’agricoltura di piccola scala e la relativa produzione per la sussistenza. Le comunità rurali sono private dei loro mezzi di sostentamento, oltre che del diritto di gestire le risorse da cui dipendono. In Senegal un investimento straniero controverso per produrre agro-carburanti per il mercato europeo, realizzato su ventimila ettari di terreni agricoli, ha scatenato violenti scontri tra contadini e polizia.
Molto complesso è il rapporto tra i governi e le popolazioni locali, le disposizioni delle legislazioni nazionali in materia di difesa dei diritti di proprietà e di accesso alla contrattazione sono deboli o raramente applicate. Per quanto riguarda la proprietà, raramente la popolazione può certificare diritti fondiari sicuri, di solito possiede solo diritti d’uso (talvolta subordinati allo specifico uso produttivo del territorio) e quindi la terra rimane, in ultima analisi, di proprietà dello Stato. C’è da considerare che, oltre a fornire i mezzi di sussistenza ad un gran numero di persone, la terra ha anche un importante valore spirituale e fornisce una base per l’identità e le reti sociali. Diritti fondiari sicuri possono contribuire a proteggere le popolazioni locali da un arbitrario spossessamento e a fornire loro un bene da utilizzare nei negoziati con il governo e gli investitori.
Spesso le forze di polizia locale si rifiutano di attuare i programmi di pulizia etnica, con relativi trasferimenti nelle periferie della grandi città delle popolazioni locali.
Occorre un cambio di strategia per mantenere e migliorare il livello di vita locale, ma anche per garantire l’effettivo godimento dei diritti fondamentali, come il diritto al cibo, per cui l’eventuale affitto a imprese estere di quel territorio, l’accordo dovrebbe prevedere garantita la sicurezza alimentare per le popolazioni interessate dal progetto.
Ad oggi in Africa, 2,4 milioni di rifugiati sono raccolti in circa 200 siti, in 22 paesi, queste persone dipendono dagli aiuti alimentari del Programma Alimentare Mondiale. Attualmente, un terzo di questi rifugiati ha visto ridurre le proprie razioni, mentre i grandi gruppi fanno affari con le produzioni agro-alimentari.
Paradossalmente il Land Grabbing produce un doppio guadagno per la finanza internazionale, il primo quello più evidente sull’agro alimentare, il secondo collegato al complesso meccanismo degli aiuti sia finanziari che come vendita di beni prodotti.
Comunque questo problema comincia ad essere attenzionato dalle strutture di governance mondiale, in questi giorni a Davos è stato siglato un importante accordo tra il WFP e un consorzio di preminenti organizzazioni del settore pubblico e privato: il Patient Procurement Platform permetterà ai piccoli agricoltori dei paesi in via di sviluppo di aumentare la resa dei raccolti e di facilitare il loro ingresso sui mercati globali.
Quello di cui parliamo non è un fenomeno nuovo. Per secoli, infatti, l’assicurarsi il controllo dei territori e delle loro risorse naturali è stato l’obiettivo che ha guidato l’espansione coloniale. Interi Stati sono stati fondati cacciando le persone che vi abitavano. Le conseguenze negative su chi vive sulle terre affittate sono spesso le stesse, a prescindere dalle motivazioni reali, e i danni risultano incalcolabili. Le comunità a cui è impedito l’accesso alla terra vengono sconvolte, le economie locali distrutte, il loro tessuto socio-culturale e la loro stessa identità sono messi a repentaglio, così come l’agricoltura di piccola scala e la relativa produzione per la sussistenza. Alle comunità rurali, private dei loro mezzi di sostentamento, non resta altro che abbandonare i luoghi dei padri e cercare fortuna altrove.
L’Europa, con il suo stile di vita, la qualità della sua organizzazione statuale, è il luogo naturale dove questi diseredati cercano di arrivare, anche perché l’Europa rimane uno dei luoghi più facilmente raggiungibili.
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