Categoria: Rivista Onlline - Edizione Ottobre 2015
L’AQUILA – Un gran successo l'incontro a più voci "Cultura ed Economia, certezza di futuro", svoltosi sabato scorso 26 settembre a Corbellino (L’Aquila), nella splendida cornice del complesso S. Sebastiano, appena inaugurato dopo un pregevole restauro. Grande soddisfazione per il sindaco di Fagnano Alto, Francesco D'Amore, e per tutta l'Amministrazione comunale del piccolo centro della Valle Subequana, capace di esordire a qualche mese dall’insediamento su temi di grande attualità: in questa occasione sui rapporti tra economia e cultura nello sviluppo dei territori dell’Abruzzo interno ricchi di valenze artistiche, architettoniche ed ambientali. E quale ruolo può recitare il mecenatismo in ambito culturale, ammesso che oggi esista un mecenatismo tout court. Su questo aspetto, galeotto è stato il libro presentato nella serata, "L’incontro D'Annunzio-Del Guzzo: il tenace colono latino"di Maurilio Di Giangregorio, infaticabile ricercatore di storia locale, ingegnere quasi in pensione la cui straordinaria passione sono gli archivi, le fonti documentali, le ricerche attraverso la memoria orale e la cornucopia dei fondi familiari, che sovente risultano grandi scrigni di storia e di storie. Di Giangregorio ha la pazienza e l’assiduità di affrontare ogni impresa e di regalare alla cultura storica abruzzese sempre risultati assai interessanti. Con un rigore che lo connota come un cultore della ricerca storiografica secondo i canoni del grande Jacques Le Goff. Forse ha davvero ragione il mio amico Mario Setta che recentemente mi confidava: “La storia non è fatta dagli esperti, ma dagli amanti dell'umanità”.
Tornando al tema dell’incontro, oltre a Maurilio Di Giangregorio, autore del libro sulla singolare vicenda di “mecenatismo” di Giovanni Del Guzzo - un abruzzese emigrato di successo in Argentina - a beneficio di Gabriele d’Annunzio, sono intervenuti nell’ordine il sindaco Francesco D’Amore, la presidente di One Group Francesca Pompa, lo scrittore Giacomo D’Angelo, il giornalista Antonio Del Giudice, il segretario generale dell’Istituzione Sinfonica AbruzzeseGiorgio Paravano e l’imprenditore Alido Venturi. La giornalista Angela Ciano è stata brillante moderatrice del convegno. Numeroso ed attento il pubblico che ha seguito l’iniziativa culturale, della quale è stato perfetto anfitrione Fulvio Turavani, per molti anni sindaco di Fagnano Alto. Sarebbe troppo lungo riferire sugli interessanti spunti venuti dai relatori. Mi permetto di scegliere l’intervento svolto da Giacomo D’Angelo, che volentieri l’ha messo a disposizione, per le puntuali annotazioni di merito sulla vicenda d’Annunzio-Del Guzzo, e per la sua franchezza, che lo confermano nella veste di “parresiaste” in ambito culturale. E non solo. (gopalmer)
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Il mecenate
di Giacomo D’Angelo
Il titolo ampolloso di questo incontro, che apre a temi di respiro universale e futuribile, richiama l’ironia di Antonio Gramsci che liquidava la pomposità degli editoriali dei giornali dei primi del ‘900 con la formula «brevi cenni sull’universo». Per compenso, la montagna himalayana del titolo frana nel topolino del sommario casereccio che però si gonfia di altra locuzione categorica, con l’espressione «mecenatismo d’avanguardia», un inedito sintagma, un hapax legomenon che genera un fatidico dubbio: esiste o è esistito un mecenatismo di retroguardia?
Essendo del tutto impreparato nelle questioni di frontiera, per parafrasare un saggio di Franco Fortini, mi occuperò dell’avventura e/o disavventura che mise sulle piste del Vate, poeticamente alate e finanziariamente dissestate (condizione usuale), un cittadino di Caporciano (il padre di Pedicciano, frazione di Fagnano Alto, la madre di Carapelle Calvisio), emigrato in Brasile e poi in Argentina, dove aveva capitalizzato un’enorme fortuna, grazie alla produzione di un sistema antisismico per le costruzioni, che gli procurò la stima del mondo politico. Il 4 (o l’8?) marzo 1910 incontra d’Annunzio a Bologna all’hotel Brun e riceve in regalo dal poeta una copia del suo ultimo romanzo, Forse che sì forse che no, con la dedica: «Al Messia invocato e sopraggiunto. A Giovanni Del Guzzo, con osanna». D’Annunzio era generoso con i suoi autografi, che in seguito costituirono una delle boccate d’ossigeno pecuniario, ma in particolare lo fu con Del Guzzo, perché ricevette dal corregionale la proposta di un giro di venti conferenze in Argentina, in occasione dell’Esposizione Mondiale di Buenos Aires e un’ode per celebrare il centenario di quella nazione. Il patto comportava un anticipo di 45.000 e il resto di 500.000 che avrebbe azzerato i debiti del poeta, assediato dagli «usurieri». Dopo un altro incontro in Toscana, il 23 marzo, viene firmato tra i due un «patto d’alleanza». Il giorno dopo, Del Guzzo s’imbarca a Genova per tornare in Argentina, si porta dietro 17 manoscritti di opere dannunziane e l’automobile Florentia, sfuggita al sequestro dei beni della Capponcina, la villa che d’Annunzio aveva addobbato lussuosamente, secondo il suo gusto fatto per il «superfluo». Il poeta ripara a Parigi con il pretesto di curarsi i denti, in realtà l’aspettano Natalia De Goloubeff, una contessa russa, Ida Rubinstein, Romaine Brooks, la moglie donna Maria e passa di salotto in salotto, scialando nella mondanità la somma cospicua messagli a disposizione dall’editore francese Calmann-Lévy. Naturalmente dimenticò Del Guzzo, non rispose ai suoi tanti telegrammi. Del Guzzo per vendetta pubblicò nel 1911 la Catilinaria Delguzzina, una filippica di «cretinaggini e di particolari più o meno veri e succosi» (Antongini), intitolata Pignus ac monumentum amoris di Gabriele d’Annunzio al “tenace colono”, che suscitò l’indifferenza dei pochi lettori. Due anni dopo Del Guzzo visitò d’Annunzio a Parigi e ci fu pace tra i due, nonostante l’inadempienza contrattuale del Poeta. Si chiede Guglielmo Gatti nella sua biografia: «Chi dei due fu l’inadempiente? O meglio, chi dei due, il “tenace colono” o il Poeta, fu il più ingenuo?». Come rileverà Benigno Palmerio, amico abruzzese di d’Annunzio, a Del Guzzo non andò del tutto male, perché dagli autografi del Poeta ricavò quanto gli aveva anticipato.
Questo episodio dell’inimitabile vita del d’Annunzio è stato citato con poche righe dai suoi biografi, il cui numero cresce nonostante il trascorrere del tempo. Alla colluvie dilagante di scritti dei tantissimi esegeti, accademici e non, si aggiunga che ogni sovrintendente del Vittoriale non resiste alla pulsione irrefrenabile o alla vanità grafomane di partorire il racconto della vita del Poeta -pensando di ricavarne un frustolo di gloria, alla maniera di Erostrato che bruciò il tempio di Efeso-, anche se spesso le loro fatiche non brillano per valore scientifico o ricerche originali ma rilucono di piattezza espositiva e di attediante monotonia. Tra i primi a portare alla ribalta pubblicistica il Del Guzzo va ricordato Tom Antongini, segretario e factotum di d’Annunzio (fu anche suo procacciatore di danaro e di altro fabbisogno), autore di ben cinque libri sul poeta, scritti dopo la sua morte, gremiti di particolari piccanti e spesso imprecisi (uno dei libri è intitolato Quarant’anni con D’Annunzio, in realtà furono trenta), che etichetta la storia di Del Guzzo come una «immensa frottola», una «leggenda», definendolo uno «pseudo mecenate italo-americano» e scrivendo: «Di lui non serbo che il ricordo divertente di un provinciale dall’aria affabile e leggermente contrita, che girava per Parigi costantemente in smoking dalle sei del mattino a mezzanotte» (come si puòvedere in una fotografia riportata nel libro del Di Giangregorio). Di certo l’Antongini, che fu autore sapido di libri umoristici (L’immortale testamento di mio zio Gustavo è un testo che offre ancora oggi il piacere della lettura), in cuor suo classificava il Del Guzzo tra i mattoidi di cui in quegli anni scriveva il Carlo Dossi delle Note azzurre, e nel trovarlo mescolato alla turba di personaggi stravaganti che avvicinavano il poeta, ricordava una sua frase: «I matti mi volano intorno come le farfalle intorno ad una lucerna». I giudizi riduttivi di Tom Antongini e il ritratto che disegna di Del Guzzo, non potevano essere graditi a quest’ultimo, che nel suo libro Gabriele D’Annunzio senza segreti (uscito nel 1940 per l’editore Airoldi) dedica grandinate di insulti al «superbiografo» e al «ciarpame diffamatorio» dei suoi scritti.
Nel 1956 esce la biografia dannunziana di Guglielmo Gatti (ristampata nel 1988 con l’introduzione di Paolo Alatri) che rimane tra le più valide e che è stata saccheggiata da molti perché la più ricca di testimonianze e apporti di altri studiosi e la più completa pur ammettendo l’autore di non aver potuto consultare lo sterminato epistolario dannunziano, ancora oggi inesplorato per larga parte (scrisse quasi 100.000 lettere, sparse tra archivi e privati, molte bruciate, come quelle alla Duse e a Barbara Leoni, smarrite o inedite). Gatti dedica a Del Guzzo il maggiore approfondimento che non subirà arricchimenti dagli altri biografi. Piero Chiara, biografo antipatizzante del Vate, non lo amava, le sue simpatie si indirizzavano al Casanova, dedica spazio al Del Guzzo, «un abruzzese ingenuo, generoso, patito di letterati più che di letteratura»: dietro la curadi Chiara c’è l’intervento di Federico Roncoroni, forse il maggior studioso vivente del Pescarese Altre biografie che hanno dato risalto alla vicenda sono quelle di Paolo Alatri edita nel 1983 dalla Utet, di Mario Schettini, di Emilio Mariano, di Eurialo De Michelis, dell’abruzzese Mario Vecchioni, dell’altro abruzzese Benigno Palmerio, medico veterinario, che visse alcuni anni al Vittoriale. Anche i biografi stranieri si sono occupati di Giovanni Del Guzzo, da John Woodhouse (Gabriele D’Annunzio. Arcangelo ribelle, Carocci ed. 1999), che con qualche arroganza definisce la sua biografia «la prima… pienamente documentata di Gabriele D’Annunzio in qualunque lingua» a quella recente del 2014 di Lucy Hughes-Hallet, edita da Rizzoli. Quest’ultima è spigliata e stilisticamente fluente, aderente allo spirito della tradizione anglosassone che coltiva questo genere senza borie accademiche (era un vecchio pallino di Indro Montanelli, che accusava gli storici italiani di accademismo retorico), anche se il libro dell’inglese contiene un giudizio che rasenta la pura bestialità Infatti la Hughes, dopo aver osservato che d’Annunzio definì Mussolini un parolaio codardo e schernì Hitler, scrive: «E’ altrettanto palese che Mussolini e Hitler impararono molto da D’Annunzio e che il resoconto della vita e del pensiero dannunziani coincide con l’evoluzione degli elementi culturali che, nei vent’anni successivi all’annessione della «città olocausta», diedero il via a un olocausto più grande e più terribile di quanto lui avesse mai immaginato». Secondo la disinvolta lady l’olocausto verbale di d’Annunzio sarebbe all’origine della Shoah. Uno strafalcione così madornale da suscitare lo sconcerto anche del più feroce antidannunziano, ma nessuno dei corrivi recensori lo ha notato, nemmeno Paolo Mieli nel fluviale commento sul Corriere, per tacere di Giordano Bruno Guerri, attuale sovrintendente, pagato profumatamente dal Comune di Pescara per tutelare la memoria del suo figlio illustre. Ma questi signori, c’è da chiedersi, leggono i libri di cui parlano?
Il libro di Maurilio Di Giangregorio contiene fin nel minimo dettaglio gli sviluppi, i dati, la contestura familiare e parentale, gli scritti, i documenti anagrafici, le recensioni giornalistiche, i telegrammi, i vari materiali scaturiti dall’incontro Del Guzzo-d’Annunzio. Di Giangregorio si è ormai ricavato un suo spazio preciso nella pubblicistica storica regionale per l’uso catastale, cancellieristico, di totalizzante gigioneria filologica, con cui confeziona i suoi testi. Ne ha prodotti molti (Adelchi Serena, don Carlo Gnocchi, Marcinelle, Panfilo Gentile, Panfilo Serafini, la famiglia Morante, preti, imprenditori, terremoti, alpini, ecc.), pur non essendo uno storico di professione, ma un cultore di Clio, la musa della storia, che ispirò ad Alberto Savinio il libro più bello sull’Abruzzo (Dico a te, Clio, Adelphi ed.). La passione di Maurilio sono le anagrafi, gli archivi, i catasti, le documentazioni notarili, le genealogie, gli album di famiglia, le collezioni di quotidiani, le fonti più varie che gli consentono uno scavo storiografico che conferisce ai suoi libri rigore e completezza. I suoi libri si presentano come strumenti di lavoro per altri ricercatori, in quanto epitomi, abbozzi enciclopedici, collages di fonti, torte millefoglie con strati misti di ingredienti. D’Annunzio, che amava assegnare nomignoli alle sue donne ma anche a tutti quelli che lavoravano per lui, probabilmente lo avrebbe chiamato scartoffista, come fece con Antonio Bruers, bibliotecario del Vittoriale. Va detto che il Di Gregorio non insegue carriere cattedratiche o ruoli da consigliere del Principe (ma i principi in Abruzzo preferiscono galoppini, con rare eccezioni), per cui il suo eclettismo disinteressato sorprende sempre per i temi e i personaggi che tratta. Dal suo libro apprendiamo il prosieguo della esistenza avventurosa di Giovanni Del Guzzo, che non ebbe altre occasioni per sfoderare il suo mecenatismo, continuò a zappettare l’orticello di rimembranze dannunziane e a rimuginare acredini e «catilinarie» verso l’Antongini, che peraltro trenta anni con il Poeta li aveva vissuti. Quindi tornò in Italia, ebbe un dissesto finanziario, si divise dalla famiglia, tentò il suicidio, fu ricoverato in una clinica per malattie mentali e poi al manicomio provinciale di Roma su richiesta della figlia Italia, colpito da broncopolmonite morì nell’aprile del 1944, a 74 anni. Annota pietosamente il Di Giangregorio: «fu sepolto nel cimitero del Verano, nell’ossario comune perché poverissimo». Una situazione dannunziana, si potrebbe concordare con Alberto Arbasino che per primo nel suo bellissimo saggio sul poeta abruzzese (vedi Sessanta posizioni, Feltrinelli ed.) scrisse di costante della vita italiana di tutti i giorni il ripresentarsi di personaggi e di momenti «tipicamente dannunziani», non soltanto a livello di social comedy o di romance, ma di un’anima italiana onnipresente attraverso ogni metamorfosi della Storia e della Società e dello Zeitgeist…Entrato quasi per caso o fortunosamente nell’alone magico dell’Imaginifico, viene inghiottito da un destino avverso e conclude i suoi tristi giorni in un’atmosfera da Carolina Invernizio.
Fu mecenate Giovanni Del Guzzo? Resta difficile accostare la sua rocambolesca e kicciosa avventura con d’Annunzio ai percorsi di grandi mecenati come Gian Giacomo Poldi Pezzoli, Mario Praz, Bernard Berenson o, per restare in Abruzzo, l’avvocato Luigi Signorini Corsi, dediti per un’intera vita allo studio e al culto di stili, arredi, arti maggiori e minori, mobili, armadi delle meraviglie, Wunderkammer. Un altro illustre abruzzese, il banchiere umanista Raffaele Mattioli, dominus per un quarantennio della Banca Commerciale Italiana (quando morì il quotidiano francese Le Monde dette l’annuncio definendolo «il più grande banchiere italiano dopo Lorenzo de’ Medici»), viene comunemente definito mecenate per la sua straordinaria attività di operatore culturale, di promotore di iniziative letterarie ed editoriali: la sua agenda di imprese e di personaggi frequentati è impressionante. Ma ci fu qualcuno che obiettò a tale accostamento divenuto luogo comune. Fu l’editore Giulio Einaudi (la cui casa editrice, salvata almeno due volte dall’intervento di Mattioli, si fregia di un motto coniato da lui «Spiritus durissima coquit») che in un intervento del 17 settembre 1975, nel corso di una commemorazione del banchiere, sostenne che Mattioli «non fu mecenate perché non chiese mai contropartite all’arte e alla cultura, ma le spronò sempre alla ricerca, all’approfondimento, e tese a liberarle d’ogni forma di servilismo»
All’inizio di questo mio intervento ho premesso di rifuggire da questioni che investono problemi di portata universale. Il titolo «cultura ed economia, certezza di futuro» fa tremare le vene e i polsi, per cui ad attenuarne la carica intimidatoria lo scriverei con un punto interrogativo. Certezza di futuro? E’ questo il problema, futuro sì, ma a che prezzo? Naturalmente non ho la pretesa di indicare come preparare il futuro, un compito superiore alle mie forze, ma di segnalare i pericoli, le trappole, gli ostacoli da evitare. Il montaliano «ciò che non vogliamo». E a chi ricorrere per tali istruzioni sull’uso se non ad un altro abruzzese, di cui Maurilio si è occupato nel suo bulimico periplo? Parlo dell’aquilano Panfilo Gentile, umanista di sconfinata erudizione, docente di filosofia del diritto all’Università di Napoli dopo la Grande Guerra, sloggiato anche fisicamente dagli squadristi, visse da avvocato e studioso del mondo antico e del cristianesimo, poi saggista politico su “Risorgimento liberale” e “Il Mondo” di Mario Pannunzio, quindi direttore della “Nazione” di Firenze e poi editorialista al “Corriere della Sera”, da cui si dimise perché sfiduciato dalla politica, attaccando la DC di De Gasperi -l’ultimo spalto di ideale guelfo-, il comunismo ma anche le malattie senili del trasformismo e dell’opportunismo presenti nel liberalismo, sempre meno utopia liberale. Scrisse quindi su giornali di estrema destra e pubblicò libri polemici (Polemica contro il mio tempo, Opinioni sgradevoli, Democrazie mafiose presso l’editore Volpe, figlio del grande storico abruzzese, Gioacchino Volpe) in cui travasò le sue amarezze di liberale individualista, di bastian contrario irriducibile, metà girotondino e metà tradizionalista, di eretico (Intorno a lui -ha scritto Sandro De Feo- si respirava l’odore di zolfo che si sprigiona dalle idee dei grandi eretici), critiche lampeggianti di intuizioni che diverranno moneta corrente negli Anni Novanta verso la corruttela della classe politica, le degenerazioni partitocratiche, il dogmatismo delle moderne democrazie, l’arrivismo degli intellettuali. In una sua pagina si legge: «Da quando lo Stato è diventato mecenate distribuendo stipendi, acquisti, sovvenzioni e premi, esso non ha incoraggiato le vocazioni, ma solo scatenato gli arrivismi…Diventano avversari del potere non per abbatterlo, ma per essere ricompensati. Sono una varietà degli opportunismi».
Forse non inventò il termine partitocrazia, il cui merito viene attribuito al costituzionalista Giuseppe Maranini, ma fu il primo critico delle organizzazioni partitiche che, sotto forma di macchine ideologico-burocratiche, sequestrano il potere a beneficio dei loro dirigenti, iscritti, clienti, tirapiedi, famuli, cortigiani. La sua lucidissima denuncia è stata profetica. Quando indica i modi in cui lo Stato di diritto viene messo in mora, si sofferma anche sul «pubblico mecenatismo», consistente «in sovvenzioni teatrali, premi letterari, graziosi versamenti a titolo di incoraggiamento o dietro il mascheramento della pubblicità ad un nugolo di riviste, settimanali e quotidiani, rappresentano la fonte cui attinge tutto un esercito di spostati, di falliti e di intellettualoidi di serie B o C. Il compito di questi parassiti è di fare della propaganda indiretta propinando dissimulati veleni alla cosiddetta borghesia intellettuale, quella che frequenta le università, legge libri e giornali, segue gli spettacoli. Il mecenatismo giornalistico, editoriale, teatrale, cinematografico, letterario e universitario è una delle cause fondamentali del basso livello della cultura contemporanea». Panfilo Gentile scriveva queste cose quando il fenomeno della televisione non aveva catturato l’egemonia dei mass media, ma nella sostanza aveva individuato il tarlo di un declino di civiltà. Il suo pensiero affascinò anche il giovane universitario Luciano D’Alfonso, che a Teramo si laureò con una tesi su Panfilo Gentile, ma la sua brillante carriera politica non ha fatto tesoro degli insegnamenti dell’antico maestro, se divenendo governatore della Regione ha avvertito il bisogno, unico dei presidenti delle regioni italiane, di occupare la carica di assessore alla Cultura. In Abruzzo non c’è mai stato un assessore alla Kultur di qualche peso, anzi la destra e la sinistra, ritenendo la cultura una cenerentola da manovrare solo per ragioni clientelari, hanno gareggiato nell’affidare il compito a fantasmi eterei, visconti dimezzati, per cui si è sperato che il barone rampante di Manoppello salito sulla groppa di un ippogrifo inaugurasse una stagione di cavalieri visibili, invece il copione finora presenta uno spento cavaliere invisibile.
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